A vacanza conclusa dal treno vedere chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna la loro vacanza non è ancora finita: sarà così sarà così lasciare la vita?
Recita cosi’ una bellissima poesia di Vivian Lamarque, e mi viene in mente mentre dal finestrino del Frecciarossa rivedo in lontananza i profili dei monti che ho risalito e ridisceso con molta gioia e qualche sofferenza. Lascio fisicamente queste terre a me parzialmente sconosciute ma che ho avvicinato intimamente con umiltà durante questo Cammino di ricostruzione. Ma non le lascerò nei miei ricordi, nei visi delle belle persone che ho incontrato alle quali va tutta la mia ammirazione e riconoscenza. Sono sicuro che la loro determinazione riuscirà a fare decollare il progetto del Cammino ad un livello di autosostenibilità. Anche se il pellegrino è un turista che consuma poco, è pur sempre una risorsa che alimenta un sostenuto passa-parola e che alla fine crea valore diffuso a beneficio di quei magnifici borghi e dei suoi abitanti. Mi rammarico di non avere conosciuto tutte le persone che si prodigano per il successo del Cammino, e la sicurezza dei pellegrini che lo percorrono.
Questo Cammino non è un cammino religioso come può esserlo quello di Santiago, o almeno come lo era all’inizio del tempo. È un Cammino di consapevolezza di un Italia che può solo sembrare minore dal punto di vista artistico ma che nulla ha da invidiare all’altra Italia del turismo di massa, per ricchezza culturale, gastronomica e di veracità intellettuale.
La presenza costante del rovo, ostile e spinoso, mi sembra potere rappresentare bene la realtà di queste montagne, di queste valli, di queste genti: come possono piante così scostanti fiorire e poi generare frutti così dolci e saporiti come le more? Solo chi persiste riuscirà a coglierne i frutti più lontani e protetti dalle spine più aguzze.
Il treno velocemente ha lasciato alle spalle i profili delle terre di Ciociaria, della Sabina, e del Spoletano. Ho avuto la sorpresa di avere il caro amico Ruggero a dividere il mio pranzo solitario a Roma tra un treno e l’altro. Un amico è veramente chi si rende disponibile a compiere l’ultimo tratto di strada per venire ad incontrarti.
Mi sento felice di avere completato la mia impresa, sto tenendo a freno il desiderio di intraprenderne altre quanto prima, ma voglio prima riflettere e fare tesoro degli insegnamenti che ho ricevuto in questi giorni. Mi affido ancora a San Benedetto perchè mi illumini con il suo esempio.
A presto e grazie del supporto di chi ci ha voluto leggere su queste pagine.
Oggi, ultima tappa di questo Cammino, termineranno gli appuntamenti serali con il mio telefonino, dove negli ultimi 18 giorni di questo anomalo e travagliato anno, ho cercato di catturare l’essenza delle emozioni, delle gioie e anche delle sofferenze che comunque hanno rappresentato momenti vissuti in intensità. Da domani troveranno posto i ricordi e i bilanci in retrospettiva, magari utili per iniziare un nuovo progetto nel meraviglioso viaggio della vita.
Ieri abbiamo chiesto al buon Tommaso di darci un passaggio fino all’abitato di Santa Lucia per accorciare la tappa su asfalto e consentirci di dormire un po’ di più per poi arrivare a Montecassino con la necessaria riserva di energia per vivere appieno l’emozione.
Facciamo colazione al solito bar convenzionato, ahimè, sempre con brioches gommose e cappuccini lenti. Difficile trovare nelle colazioni preparate nei bar della frutta e tantomeno frullati o spremute. Riesco però a procurarmi da un solerte fruttivendolo all’angolo una mela, due prugne ed un pomodoro. Mal che vada ho il necessario per un pasto senza ricorrere ai panini con l’ottimo prosciutto locale che però ti costringe a prosciugare tutte le fontane lungo il percorso per estinguere una sete inestinguibile.
Tommaso è puntualissimo, e alle 8:30 partiamo per raggiungere Santa Lucia accorciando la tappa di almeno 10km. Lungo la strada vediamo il laghetto di Capodacqua e ci fermiamo per scattarci una we-fie di ricordo.
Ripenso a tutte le tipologie di strade che abbiamo percorso fin qua: sentieri, sterrate, carrarecce, strade forestali o militari, asfaltate o bianche, tracce nei boschi o piste erbose tra i campi. Ciascuna ha le sue caratteristiche, la sua tavolozza di gioie e dolori, e per ciascuna bisogna sapersi adattare, cambiare andatura e ritmo. I percorsi ricavati nel paesaggio naturale, soprattutto nei boschi ombrosi, hanno una propria musicalità, alimentata dai richiami degli uccelli, dallo scricchiolio dei rami secchi, dal suono attutito dei passi sugli aghi e sul fogliame secco sul sentiero, a volte anche dal suono putrido del fango che ti avvolge le scarpe per poi rilasciarle con uno schiocco sordo. Il suono dei passi sulle strade sterrate è più ritmico, meno musicale e composto da un concerto per sole percussioni: lo scrocchiare della ghiaia sotto le scarpe, il ticchettio delle punte delle bacchette sul selciato, il tintinnio degli oggetti appesi allo zaino, il fruscio degli indumenti che sfregano ad ogni passo. Le strade asfaltate invece, non hanno una propria voce, sembrano morte, inframmezzate dal frastuono sovrastante e veloce dei veicoli di passaggio. Il bordo della strada è cosparso dai rifiuti di una civiltà frettolosa e irrispettosa, oggetti morti, ormai inutili, scartati con superficialità da mani ignote ed irresponsabili. Durante le lunghe camminate sulle strade asfaltate con il sole a picco, è necessario trovare sollievo nel fischiettare tra i denti qualche marcetta, tipo “Colonel Bogey” dal film “Il Ponte sul Fiume Kway“, oppure “Habanera” di Bizet. In momenti di particolare trasporto emotivo, anche lo “Inno alla Gioia” di LvB dalla sua Sinfonia n. 9 è molto utile. Allora il corpo ritrova energia, si motiva, crea sinergia con la musica, i passi si allungano, e la fatica smette di essere l’unica preoccupazione della mente, e lo sguardo si eleva.
Oscar cammina silenzioso qualche passo avanti a me sul sentiero che sale per aggirare la collina che ci nasconde la vista dell’Abbazia. Sono circa le 10 e forse abbiamo ancora un paio d’ore di cammino per giungere alla nostra meta. D’improvviso si ferma, si volta, e mi dice: “Roberto, vorrei affrettare il passo per riuscire a visitare l’Abbazia e poi precipitarmi alla stazione e prendere al volo un treno per essere stasera a casa per cena. Magari riusciamo a salutarci su al Monastero, altrimenti ci sentiamo al telefono”. Di fatto, come avrebbe detto de Andrè riferendosi a Re Carlo, sparì alla vista tra i glicini ed il sambuco. Fa parte delle regole non scritte che due adulti vivano le esperienze di un Cammino in modo totalmente indipendente, scegliendo liberamente su cosa fare a seconda delle proprie esigenze o priorità, ma fa parte anche delle regole non scritte, che ciò che si intraprende insieme debba avere anche un punto di arrivo comune che sia condiviso e celebrato insieme. Non posso nascondere che questo inaspettato epilogo mi sia dispiaciuto, e anche molto, ma sono sicuro che Oscar abbia avuto i suoi buoni motivi per agire così, e non gliene vorrò. Gli auguro un buon rientro e procedo pensieroso per la mia strada.
Di lì a poco, mi chiama il buon Tommaso dicendomi che le tenaci signore di Reggio Emilia si trovano disorientate in un punto ben preciso del percorso e non sono sicure sulla strada. Consulto rapidamente il mio GPS e taglio per il bosco improvvisando un sentiero per intercettare la strada più a monte, e così riesco a raggiungere Angela e Stefania presso la Masseria Albaneta, e decidiamo di proseguire insieme. Esprimo il mio interesse a visitare l’obelisco eretto dal Governo Polacco sul punto più alto del colle a commemorazione del sacrificio di 1500 soldati polacchi che per primi giunsero il 18 maggio 1944 sulle macerie dell’Abbazia difesa strenuamente da un gruppo di paracadutisti tedeschi che avevano occupato le rovine dopo i bombardamenti alleati del febbraio 1944. La commozione per la vicenda, e la bellezza del paesaggio che si scorge da questo nido d’aquila, è intensa. Sotto l’obelisco si trova il cimitero polacco dove gli eroici soldati sono sepolti, e dove anche il generale polacco Anders che li guidò alla vittoria volle essere sepolto insieme alla moglie nel 1970.
La scritta dice: “Per la nostra e la vostra libertà, noi soldati di Polonia, abbiamo reso le nostre anime a Dio, i nostri corpi alla terra d’Italia, e i nostri cuori alla Polonia“
Il cammino giunge al termine, il Monastero accoglie i pellegrini con un saluto breve ed incisivo: PAX
Presento le credenziali e ritiro il mio “Testimonium” che farò incorniciare e appenderò sulla mia Wall of Fame a casa insieme alla Compostela, la Rua de la Morte, ed altri cimeli di cui sono molto orgoglioso.
Ormai al termine del nostro viaggio, è utile qualche riflessione.
Il cammino è, tra molte altre cose, un mezzo formidabile per conoscere la cosiddetta “Italia minore”. Lungi dall’essere svalutativa, quest’espressione indica l’assieme di quei tesori artistici e paesaggistici custoditi dal nostro paese che restano largamente ignorati dai grandi flussi turistici. Tanto da poter dire che ben difficilmente li avremmo scoperti se non fosse stato per il cammino.
Questo è vero per tutti i cammini. Io ho percorso prima d’ora la Via Francigena (Fidenza-Roma) e il cammino Coast-to-Coast (Ancona-Orbetello) e posso testimoniarlo. Tuttavia molti dei luoghi attraversati da questi cammini costituiscono mete turistiche ben note ai viaggiatori tradizionali. Questo non vale (o vale molto meno) per il Cammino di San Benedetto. Borghi e bellezze naturali che si incontrano su questo cammino sono in buona misura sconosciuti al grande pubblico. Il valore aggiunto che il camminatore trae dal Cammino di San Benedetto in termini di scoperta delle bellezze più nascoste del nostro territorio è quindi superiore rispetto agli altri cammini.
Ma questo è solo un aspetto. L’altro aspetto da considerare è il reciproco del precedente, ovvero il contributo che il Cammino di San Benedetto porta alla valorizzazione e all’economia dei territori attraversati. In molti di questi luoghi di turisti se ne sono sempre visti pochi. Così gli abitanti si erano abituati a pensare che poco o nessun valore vi fosse custodito. Aggiungete a questo un’economia stagnante, la scarsità di posti di lavoro, l’emigrazione dei giovani più dotati, l’invecchiamento della popolazione, e capirete che il Cammino di San Benedetto sta portando in molti dei luoghi attraversati una ventata d’aria fresca. La vista dei camminatori con lo zaino in spalla che si soffermano a guardare con meraviglia i panorami dei monti e delle valli, o che ammirano gli antichi monumenti, le espressioni di delizia riservate ai cibi serviti in generose porzioni nelle trattorie, tutta roba a chilometri zero, tutto questo e molto altro sta spingendo i cittadini locali a fare delle riflessioni. La prima è di essere rimasti troppo a lungo seduti su un grande tesoro senza essersene accorti. I pellegrini sono diventati i preziosi testimoni di una realtà e di prospettive nuove! Non si tratta tanto dei soldi che portano (ancora pochi nella dura situazione post-Covid), quanto della consapevolezza che c’è moltissimo da fare e tanti stanno provando a farlo. Stanno equipaggiando le case per l’ospitalità, attaccano cartelli nei boschi per segnalare i sentieri, ampliano gli orari di apertura di chiese e musei, offrono ai pellegrini ottimi menù nelle trattorie… Inoltre i pellegrini trovano qui gente simpatica e ospitale che si fa in quattro per soddisfare ogni loro richiesta. Ti fermi ad un incrocio dubbioso su dove andare, e qualcuno subito appare ad un balcone per indicarti la via. In piena campagna trovi chi ti offre acqua freschissima e ti invita in casa per un liquorino con una fetta di crostata. Trovi gente che ti porta gratuitamente lo zaino a destinazione. E tanta disponibilità a fare due chiacchiere, a raccontarti sul loro borgo cose che non sono scritte su alcuna guida. Tutte attenzioni che noi camminatori non avevamo ricevuto da nessuna altra parte!
Questo quadro così positivo ha la sua faccia negativa. La consapevolezza tardiva dei grandi tesori di un territorio rimasto turisticamente sottosviluppato non sana i danni prodotti nel passato. Borghi con centri storici bellissimi circondati da orrende periferie, traffico automobilistico insensato fin nei vicoli più angusti, ogni minimo spazio occupato da auto parcheggiate a ridosso di luoghi carichi d’arte e di storia.
L’altro giorno ero ad esempio nella meravigliosa abbazia circestenze di Casamari. Nello stupendo cortile erano parcheggiate non meno di 100 auto in quanto nell’abbazia era in corso un funerale. Anzitutto chi ha detto che debbano essere consentiti funerali in un preziosissimo bene artistico che è patrimonio di tutti? Posto anche che il funerale dovesse aver luogo a Casamari, il permesso di sostare davanti alla scalinata non avrebbe potuto essere limitato al carro funebre, obbligando parenti e amici a mettere l’auto nel grande parcheggio posto proprio davanti all’ingresso dell’Abbazia? Non vi è ragione alcuna che neppure il Presidente della Repubblica non debba entrare a piedi in una tale bellezza, un atto di rispetto dovuto.
Abbiamo invece visto case e condomini moderni costruiti senza alcun rispetto dell’ambiente e dei contesti urbani, campagne devastate da case, fabbriche, ponti, strade, tralicci dell’alta tensione sparsi in giro senza criterio.
Villa non terminata nella campagna di Casamari
Città murate di grande bellezza come Vico hanno visto le mura fagocitate da abitazioni private con la perdita di ogni caratterizzazione paesaggistica e urbanistica. Gli abitanti di Vico dovrebbero confrontarsi con Monteriggioni. Con una popolazione 5 volte superiore, quest’ultima mantiene la meravigliosa cinta muraria medievale completamente integra e isolata dall’abitato. La cittadina toscana gode di un turismo di alto livello tutto l’anno e la popolazione ha un reddito pro-capite superiore a quello di Milano.
Tra le cose che abbiamo visto ci ha inoltre stupito la situazione della SP7 tra Arpino e Roccasecca, una delle carrozzabili più belle d’Italia per il meraviglioso paesaggio in cui è inserita, in ottimo stato di conservazione ma inspiegabilmente chiusa da 11 anni, probabilmente per insensati progetti di allargamento della sede stradale e creazione di viadotti bloccati da qualche saggio amministratore. Lavori del tutto inutili per una strada con destinazione prevalentemente panoramica e turistica.
SP7 chiusa da 11 anni
Altre osservazioni riguardano alcune abitudini della popolazione che sono intollerabili in un contesto di turismo culturale europeo. I bordi delle strade urbane ed extraurbane sono costellati di rifiuti altamente inquinanti come bottiglie di plastica, pacchetti di sigarette, packaging di ogni tipo, sacchi di plastica, spazzatura, rottami abbandonati. Sono probabilmente milioni i mozziconi di sigarette sparsi dovunque nelle piazze e nelle strade dei borghi d’arte, mozziconi ognuno dei quali ha un tempo di dissolvimento di oltre 10 anni.
Un’altra abitudine intollerabile ormai scomparsa da tutti i paesi civili è quella di abbandonare dovunque gli escrementi dei cani. Uscendo da Arpino al mattino presto ne abbiamo incontrati per strada centinaia.
Queste annotazioni (certamente non esaustive) non intendono essere svalutative, bensì sottolineare un problema che a nostro avviso esiste. Le popolazioni a sud di Roma non sembrano amare la propria terra abbastanza da rispettarla ed accudirla così come si rispetta ed accudisce la propria casa. Questo non è problema di amministratori incapaci, è anzitutto responsabilità dei cittadini. Nessuno butterebbe un mozzicone sul pavimento della propria sala da pranzo, e tantomeno permetterebbe al proprio cane di defecarvi. Nessuno parcheggerebbe la propria auto in camera da letto; perché parcheggiarla davanti alla scalinata della cattedrale della propria città?
Il vero salto di qualità del turismo in queste bellissime zone d’Italia potrà avvenire attraverso un atto d’amore della gente verso la propria terra. Rispettare il territorio, riparare i danni riparabili, evitare di farne di nuovi. Il culto della bellezza sarà la chiave del successo. Abbiamo visto segni positivi in questa direzione. Occorre fare di più.
La tappa si preannuncia molto bella e di media difficoltà, ma decidiamo comunque di evitare il caldo il più possibile e pertanto mettiamo la sveglia alle 5, contando di partire alle 5:30. Alle 5:45 ci fermiamo dal bravo Massimo gestore del quasi centenario Caffe’ Italia per un cappuccino e brioche gommosa. Scambiamo due parole con Massimo, appassionato di cavalli e di turismo equestre, e ci racconta di come sia popolare da quelle parti andare in giro a cavallo. Considerata la natura dei sentieri, perlopiù sassosi dei monti Ernici che circondano la piana di Arpino, vedere persone a cavallo non stonerebbe per niente con l’armonia del paesaggio. Noi comunque non ne abbiamo ancora visto in giro anche se una certa qual presenza e’ rivelata dalle abbondanti deiezioni sul percorso.
Sotto il cipiglio austero di Caio Mario, altro illustre cittadino di Arpino, ci allontaniamo dalla cittadina alla volta dell’Acropoli di Civitavecchia
L’acropoli è un insediamento pre-romano del VII secolo A.C., perfettamente conservato e inframmezzato da giardini ben curati, e qualche casa di un certo stile nel borgo di Civita ad essa annessa. Una delle porte di accesso all’Acropoli è un arco a sesto acuto, l’unico rimasto in piedi in Italia, e che fa un po’ pensare alla Porta dei Leoni a Micene. L’ora mattutina è magica per fotografare queste affascinanti rovine e indugiamo a percorrerne i quattro angoli nel tentativo di portarci a casa i colori ed i suoni che ci circondano.
C’è da dire che le tappe così serrate di questo Cammino, ti fanno arrivare esausto e affamato alla destinazione, e raramente si ha la voglia e la forza di buttarsi fuori a visitare il borgo. Poi bisogna tenere conto degli orari di apertura che non sempre coincidono con visite programmate al tramonto quando il caldo è meno feroce. Personalmente preferisco di gran lunga visitare i luoghi di tappa la mattina prestissimo, e forse varrebbe la pena, malgrado i costi e la durata, di poter fermarsi almeno due notti per ogni tappa.
Oggi incontriamo tante persone gentili che si intrattengono volentieri con noi. A partire dal factotum Tommaso di Roccasecca che percorre più volte al giorno la strada da Arpino a Montecassino per accudire i pellegrini sotto la sua giurisdizione di ogni necessità: portare o andare a prendere zaini e valigie, portare persone a visitare luoghi fuori tracciato, prendere e portare persone dalla stazione, portare bottiglie di acqua a camminatori disidratati lungo le gole del fiume (secco) del Melfa, gestite i pernottamenti a Roccasecca per garantire a tutti il giusto confort dopo la camminata, e probabilmente dimentico ancora qualcosa.
Molto carini Rosanna e Michele a Torra Montenero, che ci vengono incontro sbracciandosi per rifornirci di acqua e già che ci sono, offrirci anche un caffè, e un bicchierino di liquore di mirtillo. Simpatico il trattorista Dario, che nel darci indicazioni si sofferma volentieri per sapere di noi, da dove veniamo, ecc. Interessante parlare anche con Ferdinando col figlio Federico ed il papà Antonio, che ci raccontano le memorie dei loro nonni e bisnonni, su quanto avvenne nei primi mesi del 1944 con gli Alleati che fecero saltare tutti i ponti, prima di distruggere la Abbazia di Montecassino cercando di colpire il Comando tedesco asserragliato in una vicina masseria a difesa della linea Gustav.
Scendiamo per un ripido sentiero sassoso tra campi di energia fotovoltaica solare, fino a raggiungere la strada cosiddetta del Trecciolino, che con un bellissimo tracciato sul fondovalle del fiume Melfa, collegava Roccasecca con Isernia in Molise. Peccato che la strada è chiusa al traffico veicolare dal giugno 2006 e nessuno del posto ci sa dire con esattezza perchè. La natura è veramente incontaminata e da qualche tempo sui picchi rocciosi che sovrastano la valle sono tornate a nidificare le aquile. Arriviamo comunque a Roccasecca alle 13 riarsi dal sole, ma sufficientemente idratati grazie al buon Tommaso che nel frattempo ci è venuto incontro con il suo scooter e con il bauletto colmo di acqua fresca attinta alla fonte. Ci diamo appuntamento alle 18:30 per portare noi e le signore di Reggio Emilia, che nel frattempo ci hanno raggiunto, a visitare la chiesetta di San Tommaso di Aquino, dottore della chiesa e nativo di Roccasecca.
Domani sarà l’ultima tappa e ci congederemo dal Cammino non prima però di avere ritirato il Testimonium come attestato di completamento del percorso.
Dopo la sfacchinata di ieri, abbiamo riprogettato la tappa di oggi concentrando il cammino nella parte centrale per visitare con più agio le zone di maggior rilevanza sia paesaggistica che artistica. Prima decisione della mattina è stata per me quella di visitare l’Abbazia di Casamari alle 9:00, alzandoci con calma, e poi di prendere la corriera per Isola del Liri e tagliare così almeno 8 dei 22 km previsti per la tappa. Visto che Oscar era già stato all’Abbazia la sera prima ci diamo appuntamento alla fermata dell’autobus Cotral alle 10:30, in considerazione dell’orario pubblicato sul sito per la fermata di Casamari alle 10:37. Per cui facciamo colazione nel refettorio del convento, in un tavolo ad U con almeno una trentina di sedie vuote. Chiediamo a suor Giuliana quante consorelle vivono al convento, e ci dice sconsolata che sono rimaste in 3, “…ma ogni tanto vengono a trovarci le sorelle da Anagni!” aggiunge. Foto ricordo con suor Giuliana e poi procedo, sacco in spalla per andare a visitare l’Abbazia.
Alle 10 mi avvicino alla fermata del bus, mentre al telefono Oscar mi conferma che sarà lì anche lui alle 10:30 come concordato. Alle 10:25, il bus arriva a velocità sostenuta per fare scendere una persona, e fa per ripartire quando riesco a fermarlo per chiedergli se questa corsa fosse quella prevista per le 10:37. “E che ne so’ io?” dice molto professionalmente il conducente, “io so’ partito da Roma alle 9, e ce devo ritorna’ per mezzogiorno.” Chiude le portiere e riparte come avesse il diavolo alle calcagna. Intanto giunge trafelato Oscar ma è troppo tardi e rimaniamo come due pirla sconcertati fermi sul piazzale con i biglietti in mano.
Dopo qualche tira-e-molla per decidere se aspettare il prossimo autobus o fermare qualche macchina, prevale l’uso del pollicione e sorriso ammiccante, mentre Oscar tampina tutte le macchine che si muovono dal parcheggio in cerca di qualcuno che vada nella nostra direzione e che sia disponibile a prenderci. Dopo poco, Oscar rimedia una coppia che di buon grado ci fa salire e ci porta fino al ponte di Isola del Liri.
La cascata di 27 metri, la meta’ dell’altezza di quelle del Niagara, è sorprendente, e diffonde uno spray rinfrescante nelle calura che è già pesante.
Visitiamo brevemente la cittadina e ci spingiamo fino al confine con la città di Sora per visitare l’Abbazia di San Domenico, un capolavoro cistercense dell’anno mille.
Riprendiamo il cammino ma sono già le 13. Ad un bar troviamo Stefano che dopo averci raccontato metà della sua vita e noi della nostra, ci fa: “Aho’, ma non sarete mica matti a salire ad Arpino mo’ con questo caldo, aspettate che vi ci porto io…” In men che non si dica, fa partire la macchina parcheggiata nei pressi e ci tira su. Una benedizione considerata la strada che ancora ci sarebbe stata da fare. Grazie Stefano, un altro angelo traghettatore incontrato sul nostro Cammino.
Arriviamo ad Arpino e Stefano ci scarica di fronte alla statua di Marco Tullio Cicerone, illustre personaggio nato proprio qui, il quale pero’ sembra che ci voglia cacciare indicando un punto lontano dalla parte di dove eravamo venuti.
Andiamo a conoscere i simpatici proprietari del B&B Il Caùto, Renato e Lucia, e depositiamo i bagagli prima di fare un giro per il paese e per poi andare a cena. Domani partiremo alle 5:45 per combattere il caldo del pomeriggio sperando di arrivare a Roccasecca, penultima tappa del Cammino, entro le 14.
Prima di raccontare la straordinaria vicenda che mi occorse durante il mio cammino in Galilea, vorrei affermare con la massima decisione di non avere mai creduto a fenomeni soprannaturali di alcun tipo. Ciononostante devo ammettere che qualcosa di insolito accadde, qualcosa che non so ancora oggi spiegarmi. Ma lasciatemi andare per ordine nel narrare come andarono le cose.
Era il maggio 2018, mese in cui ricorreva il settantesimo anniversario della fondazione dello stato di Israele. Mi piacerebbe raccontare che ebbi l’onore di conoscere a Gerusalemme il maestro pugliese Francesco Lo Toro, pianista e direttore d’orchestra che aveva passato trent’anni della sua vita a cercare spartiti musicali composti da musicisti ebrei nei campi di sterminio nazisti. Grazie a queste benemerenze, in quel mese di maggio egli ricevette i più alti riconoscimenti dallo stato di Israele nel corso di bellissime cerimonie pubbliche. Sarebbe interessante approfondire questa storia, ma temo che ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema.
Dopo alcuni giorni trascorsi a Gerusalemme presi dunque un treno per San Giovanni d’Acri (Akko), il mitico baluardo dei Crociati in Terra Santa, da cui partii a piedi per il mio viaggio in Galilea. Il pellegrinaggio, della durata di otto giorni, mi avrebbe portato dal Mare Mediterraneo ai monti sovrastanti il Lago di Tiberiade lungo molti dei luoghi dove si svolsero i fatti narrati dai Vangeli sulla vita di Gesù. In totale 120 chilometri che avrebbero toccato Zippori, Nazareth, Monte Tabor, Tiberiade, Monte Arbel, Migdal, Cafarnao, Tabga, Monte delle Beatitudini, Khirbet Minim, Wadi Amud.
La Galilea è un territorio affascinante, prevalentemente collinare, che alterna zone aride e pietrose con altre lussureggianti di boschi e coltivazioni. La popolazione è in gran parte araba, e tra gli Arabi sono abbastanza numerosi i Cristiani. Devo dire che si tratta di un popolo estremamente gentile e disponibile ad aiutare un pellegrino in cammino con lo zaino in spalla. Ricordo ad esempio che smarrii il cappellino e rimasi a testa nuda sotto un sole massacrante. In un villaggio arabo trovai una bottega di abbigliamento. La proprietaria mi spiegò che non vendeva cappelli, ma poi salì in casa sua e mi portò una paglietta blu elettrico che era appartenuta al marito appena defunto. Quella paglietta mi accompagno’ per tutto il viaggio e ancora oggi la conservo gelosamente.
Il terzo giorno di cammino giunsi quindi in vista del Monte Tabor. Era questo il luogo dove, secondo il Nuovo Testamento, era avvenuta la Trasfigurazione di Cristo. Il monte si elevavava sulla pianura con la forma di un panettone, raggiungendo la non eccezionale altezza di 600 metri. Poiché la pianura era a quota 200, c’era da salire per soli 400 metri.
Il Monte Tabor
L’episodio della Trasfigurazione di Cristo è narrato nei Vangeli di Marco, Matteo e Luca. In cosa consiste’ questa celebre apparizione? Dopo essersi appartato con i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, Gesù cambiò aspetto mostrandosi ai tre discepoli “con uno straordinario splendore della persona e uno stupefacente candore delle vesti”. Quale fu, secondo le interpretazioni dei teologi cristiani, il significato di questa luce increata e immateriale che risplendette dal Salvatore trasfigurato? Sono quattro le interpretazioni
Trasfigurazione di Gesu
Essa ci rivela la gloria della Trinità
Essa ci rivela la gloria di Cristo come Dio incarnato
Essa ci rivela la gloria della persona umana
Essa ci rivela la gloria dell’intero cosmo creato
Insomma, fu la Trasfigurazione avvenuta sul Monte Tabor a dare un senso universale al sacrificio di Cristo sulla croce e alla nascita dell’intera cristianità.
Con animo reso leggero dalla vicinanza della meta e dal cielo azzurrissimo mi accinsi alla salita che fu assai piacevole data la varietà dei paesaggi che continuamente si dischiudevano sulle colline della Galilea. In poco più di un’ora arrivai in cima. Un grande arco in pietra di epoca crociata accoglieva i pellegrini. Dietro di esso un lungo viale circondato da aiuole fiorite conduceva al Tempio. Sul lato destro una fila di bassi edifici era destinata ad ospitare i frati e i visitatori. L’intero complesso è stato ricostruito nel 1924 sulle rovine di un monastero benedettino di epoca crociata distrutto nel 1221 dal sultano al-Malik. Era lì che avrei dormito quella notte.
Dopo avere depositato lo zaino nell’ostello mi recai a visitare il Tempio. Occorre dire a chi legge che Monte Tabor viene visitato ogni giorno da innumerevoli gruppi di pellegrini provenienti da tutti i paesi del mondo. Ciascun gruppo è normalmente accompagnato da un prete a cui, dopo la visita al Tempio, viene assegnato uno spazio all’interno della basilica oppure all’esterno sotto uno dei tendoni che proteggono dai raggi del sole per celebrare la messa. Devo dire che la sorte mi ha malauguratamente privato del conforto della fede e che l’interesse per questo luogo e per tutti quelli che avrei in seguito visitati era legato alla storia dei fatti che accompagnarono la vita dell’uomo Gesù. La storia è infatti il mio principale interesse e ciò di cui occasionalmente scrivo.
La giornata trascorse così assai tranquillamente nella bellezza e nella pace. Feci anche una lunga passeggiata sulla cima del monte, che mi condusse a visitare il vicino Tempio ortodosso. Piano piano le ombre cominciarono ad allungarsi sulle colline della Galilea. I gruppi di fedeli ripartirono sui loro autobus finché rimasi da solo nel grande complesso religioso. Non da solo a dire il vero, perché restavano anche i tre ragazzi dell’associazione di Padre Eligio che gestivano l’accoglienza ai pellegrini. Essi dedicarono quindi molte attenzioni all’unico pellegrino rimasto sul monte, il sottoscritto.
Scese la sera, una sera di indescrivibile bellezza come si può solo immaginare. Consumai una cena frugale ma ottimamente confezionata nella grande mensa dei pellegrini. Come sempre succede in Terra Santa, la notte calò improvvisa. Quando uscii dalla mensa, il panorama era costellato dalle lontane luci dei villaggi arabi sparsi sulle colline. C’era un immenso silenzio. Decisi di recarmi verso la basilica la cui facciata illuminata dai fari si stagliava bianchissima contro l’oscurità della notte.
Il santuario di Monte Tabor
Giunsi dunque al piazzale antistante il Tempio. Una fresca brezza aveva spazzato via la calura del pomeriggio. Mi fermai ad ammirare la facciata e respirai a pieni polmoni la frescura della notte. Poi mi sedetti sui gradini.
Come talora accade anche alle anime più sensibili alla bellezza, invece di lasciarmi ispirare dalla magia dei luoghi per nobili meditazioni, non resistetti al richiamo del telefono cellulare. Estratto dunque il mio smartphone mi dedicai alla lettura dei numerosi messaggi pervenuti, e a rispondere a quelli che mi parevano più urgenti o importanti. Ero così concentrato che all’inizio non mi accorsi che qualcosa stava avvenendo alle mie spalle.
Davo le spalle al portone principale della grande facciata del Tempio il cui biancore rischiarava per alcuni metri l’oscurità della notte. Da principio ebbi come l’impressione che qualcosa si stesse muovendo dietro di me. Smisi di armeggiare con lo smartphone ed affinai l’udito per meglio capire, non osando girarmi. Il silenzio pareva totale. Invece no. Ad un certo punto cominciai a sentire come un lievissimo fruscio. Che fosse il vento rafforzatosi nel frattempo senza che me ne accorgessi? No, non era il vento. Confesso che provai un qualche timore di trovarmi così solo in un luogo così solitario. Ma pensai che mai un tale luogo avrebbe potuto nascondere delle minacce. Rimasi dunque in ascolto. Il fruscio cessò all’improvviso. Pensai che fosse stato uno dei soliti acufeni, magari un piccolo sbalzo di pressione legato al reverenziale timore che il luogo ispirava.
Poi all’improvviso il rumore dietro le mie spalle ritornò più forte di prima, ma non era più un fruscio. Cosa poteva essere? Ecco, sembrava come un… un frottare. Cominciai a spaventarmi. Sì, era un frottare di ali, di grandi ali. Come potetti non girarmi? L’unica occasione della mia vita, che avrebbe cambiato la mia vita. Pensate cosa sarebbe stato trovarmi davanti un… angelo! E se fosse stato qualcosa di diverso? Quest’ultimo pensiero invase la mia mente e mi sconvolse di terrore. Mi alzai in piedi di scatto e fuggii con tutte le mie forze verso il riparo sicuro della mia stanza nell’ostello.
Da allora ripenso spesso a quella notte e non so darmi pace di non avere avuto il coraggio di girarmi. Mai più ho avuto un’occasione del genere.
Oggi è in programma una giornata in parziale relax, grazie alla macchina di Pio che ci scorrazzerà attraverso la Ciociaria. Ma prima di tutto devo e voglio presentarvi Pio, amico storico di Oscar e da questo viaggio spero anche amico mio. Un incontro con una persona affascinante, con quel modo di essere Romano, colto, ironico, e amante delle arti e della buona tavola, che ho già riscontrato in altri miei amici ‘de Roma‘ con i quali sono legato da sincero affetto.
Lasciamo il bello e confortevole B&B “Le Logge dei Banditori” con una sostanziosa colazione, salutando la gentile Samantha al parcheggio e ci muoviamo in direzione di Alatri.
Pio ha una notevole capacità di parcheggiatore e non si dà pace finchè non riesce a trovare un buco a pochi metri da qualunque destinazione vogliamo visitare. Parcheggiamo infatti a pochi metri dalla notevole Acropoli di Alatri con la sua ciclopica cinta muraria molto evocativa e suggestiva. Un curioso bassorielievo corona la porta cosiddetta “dei falli”.
Molto suggestiva anche la cattedrale che si affaccia su di una bella piazza con fontana.
Passiamo da Guarcino che non ci impressiona un gran che, ma di cui gustiamo gli amaretti, la specialità pasticcera del luogo, e muoviamo alla volta di Vico nel Lazio, dove fingiamo di visitare il molto ben mantenuto centro storico ma in realtà stiamo cercando un ristorante vista l’ora pomeridiana. Il Ristorante del Castello ci sorprende per la raffinatezza del locale e la professionalità del Maitre Armando. Ci accontentiamo di fiori zucca, filetti di orata, e maccheroncini neri al pomodoro. Facciamo due chiacchiere con due simpatici abitanti del luogo e poi proseguiamo per Collepardo, alla volta di Ivana e del suo affascinante B&B.
Una notte passata in un posto magico, al B&B La casa d’Ivy a Collepardo. Giorgio, il marito di Ivana, é un architetto ed un serio collezionista di modernariato e oggetti anni ’60 e ’70 che vengono da lui stesso trasformati aggiungendo altre funzionalità che impreziosiscono la collezione senza mai scivolare nel kitch. Vuoi il Juke-Box, o l’armadio dentro il Frigidaire con la leva a scatto, o la tanica di benzina metallica trasformata in cassa per altoparlanti, o gli orologi, le macchine fotografiche, persino trenini elettrici ed un personal computer della Olivetti, tutto é meticolosamente raccolto ed armonizzato con l’ambiente. Non ci vuole molto per portarci nel suo garage ad ammirare una Fiat 850 Coupé seconda serie 1972, gialla e una Lancia Fulvia coupè grigio argento. Troviamo anche una Lambretta del 1955 e altri motorini. Decisamente una coppia molto interessante. Al B&B di Ivana ritroviamo Angela e Stefania, con le quali programmiamo di fare la prossima tappa insieme partendo prestissimo per evitare il caldo.
Iniziamo quella che si preannuncia una lunga giornata di cammino alle 6:10 con sveglia alle 5:30 e splendida colazione servita dalla nostra premurosa Ivana, la quale decide addirittura di accompagnarci per un pezzo di strada. Altra Amica del Cammino molto disponibile alla quale questo Cammino e noi stessi dobbiamo molto.
Dopo una manciata di chilometri su per una durissima salita arriviamo alla Certosa di Trisulti, chiusa per il Covid, ma che sappiamo essere stata aperta ieri per farla visitare ai pellegrini illustri che continuano a precederci. Non nascondiamo la nostra stizza per essere considerati pellegrini di classe B, ma tant’è, non vale la pena arrabbiarsi che tanto non serve a niente.
Subito dopo comincia per me un’agonia per il dolore martellante soprattutto al ginocchio sinistro che mi impone di rallentare soprattutto in discesa. Il percorso è tutto un saliscendi per vallate verdissime inframmezzate da cascine di pastori o campi coltivati a foraggio. Non mi sento bene, e il sole martellante non mi dà tregua. Ma si va avanti. Dopo 7 ore, sono pronto a tirare fuori il pollice per fermare qualche macchina lungo la provinciale, ma voglio tenere duro. Cammino insieme ad Angela e Stefania che mi seguono fedeli mentre Oscar ha voluto accelerare il passo durante le (moltissime) salite ed è considerevolmente avanti a noi. Consulto spesso le tracce GPS perché i sentieri mancano spesso di segnaletica, o se ci sono, sono ambigue. Alle 15:30 vediamo un bar vicino ad una stazione di servizio, e Angela contratta un passaggio da un buon diavolo di nome Luca fino alla nostra destinazione, cioè le Suore Cistercensi di Casamari nel cui convento passeremo la notte. Mancavano solo due o tre chilometri ma quel passaggio ha fatto la differenza tra lo stramazzare al suolo oppure su di un letto preparato dalle amorevoli cure delle monache Ugandesi.
Mi accorgo quando ci trasciniamo fuori per andare a mangiare una pizza, che non ho fatto molte foto oggi. Urge comunque una strategia per riuscire ad andare avanti per le prossime tre tappe. Ma ne parlerò un’altra volta.
Un amico mi scrive: “… ti invidio per la possibilità che hai di lasciarti sorprendere dalla bellezza che comunque ti circonda…”. È vero, l’esperienza di un Cammino mette sempre in contrapposizione la commiserazione per se stessi, per la fatica, per i dolori muscolari e delle articolazioni, con la contemplazione della bellezza intorno a noi. Se si riesce a minimizzare il proprio disagio, si guadagnano immensità e sentimenti quasi infantili di felicità.
La tappa di oggi è una variante della tappa 12 che secondo il tracciato del CsB da Trevi condurrebbe direttamente a Collepardo attraverso i borghi di Guercino e Vico nel Lazio. Noi invece arriveremo a Collepardo domani, e oggi facciamo una deviazione per Fiuggi per incontrare Pio, un caro amico di scorribande giovanili di Oscar, e testimone di nozze di Oscar e Carla nel 1971. Pio, originario della provincia di Frosinone ci preleverà in macchina e ci farà da cicerone per la bassa Ciociaria.
Partiamo di buon ora per una traversata che a sentire gli abitanti di Trevi si preannuncia come un gioco da ragazzi, una cosetta da tre ore al massimo, ma che invece a giudicare dai profili altimetrici e avendo avuto già qualche esperienza con i sentieri appenninici locali, pensiamo sia più impegnativa del previsto. Primo check-point alla cappella della S.Maria del Portello, dove impariamo la storia dell’abigeato del Ciolli.
Secondo check-point all’arco di Trevi, postazione doganale d’epoca romana, sulla strada che conduceva a Treba, antico nome latino di Trevi. L’arco realizzato con pietre squadrate sorge solitario nel punto più alto del percorso, circa a 1000m di quota.
Dopo poco arriviamo alla SR411 punto in cui ci separiamo dal tracciato del Cammino per dirigerci su Fiuggi seguendo un sentiero del CAI, ma di scarsa o addirittura assente manutenzione. Ben presto il sentiero si manifesta per quello che realmente è, cioè per una via di transumanza delle mandrie che dalla valle risalgono per pascolare nei bellissimi prati in quota.
È necessaria una riflessione a questo punto. Quando nelle guide si legge di sentieri che ripercorrono le antiche vie di transumanza, bisogna abbandonare le bucoliche immagini di pastorelli che suonano lo zufolo, sdraiati sui prati verdi circondati da mucche immacolate che brucano incuranti dei cani che incrociano felici per aiutare il pastore. La realtà è brutale: le vie di transumanza, peggio se sono antiche, non sono altro che vie di…escrementi e fango! Come già riscontrato tra Leonessa e Poggio Bustone, il sentiero è a tratti abbellito da simpatici laghetti di cacca ed altri liquidi che ci costringono a lunghe deviazioni negli sterpi e nei rovi, rallentandoci considerevolmente. Altra riflessione riguarda i percorsi che dovrebbero essere in discesa ma che invece sono continuamente inframmezzati da ripide salite ammazza-gambe, assolate e sassose. Arriviamo al punto d’incontro con Pio in 5 ore anziché le 3 previste dai Trebani.
Finalmente, confortevolmente seduti e con gli zaini nel baule della macchina ci concediamo una carbonara ed una passeggiata per Fiuggi.
Proseguiamo poi per Anagni, la città dei 4 Papi, dove arriviamo alle 16 per l’appuntamento con Samantha, la nostra hospitalera per la notte. Ci ha sistemato in due appartamentini molto graziosi e ospitali nel centro storico. Ad Anagni non si vedono spesso dei pellegrini, soprattutto conciati come noi. Visitiamo le bellezze della città, come sempre semi-chiuse: “Aperto sabato e domenica” leggiamo sul portone del palazzo di Bonifacio VIII, e poi si lamenta perchè lo hanno preso a schiaffi! La basilica invece è aperta e ci offre una ventata di fresco e di spiritualità diffusa.
Aperitivo e cena al Ristorante del Gallo locale storico, aperto dall’oste Vincenzo Pampanelli alla fine dell’ottocento, in una famosa casa-torre del 1300. Il riferimento al volatile non deve trarre in inganno: qui il ‘gallo’ identifica la casa dove abitò e mori il francese Thiers d’Hiricon, il Gallo appunto, cavaliere di ventura che insieme ad altri due altri gaglioffi, prese parte alla spedizione punitiva contro il Papa Bonifacio VIII complottata dalla famiglia Colonna contro i Caetani. Incuranti delle passate vicende, facciamo secca una buona bottiglia di Cesanese del Piglio e andiamo a dormire.
“Anni fa, uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead quale riteneva che fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo”.
Ho voluto inserire questo testo come spunto di riflessione sull’importanza della accoglienza e dell’ospitalità, come gli esponenti di cultura e civiltà che sono stati finora i capisaldi di questo Cammino. Mi auguro anche di essere stato di aiuto ad Oscar nei suoi momenti di difficoltà, così come lui lo ė stato per me.
Ci siamo messi in cammino non appena finito la colazione servita dal bravo Angelo e dopo che i monaci hanno aperto l’erboristeria del monastero per consentirci di apporre il timbro sulla nostra credenziale.
Il percorso è definito facile e, leggeri senza gli zaini, percorriamo i primi 10km abbastanza velocemente lungo una buona sterrata che in molti punti si apre sull’Aniene offrendoci notevoli e suggestivi scorci delle acque del torrente.
Un incontro quanto mai piacevole ci coglie di sorpresa. A Mola Secca ci viene incontro una volpina tenera tenera, subito battezzata Foxie, evidentemente abituata ai pellegrini di passaggio, che aspetta paziente con la solita aria di creatura affamata che il viandante di turno divida il pranzo con lei.
Alla fine, o meglio all’inizio della passeggiata lungo l’Aniene, si possono visitare le cascate, in un sito paesaggisticamente molto suggestivo, ma lasciato al degrado e all’abbandono. Per arrivarci bisogna scavalcare delle transenne che ostacolano l’accesso al ponticello ormai ridotto ad una passerella di pochi centimetri, ma senza alcun segnale di divieto d’accesso, anzi sulla strada c’è una dovizia di segnaletica che promuove il sito (che comunque in realtà é bellissimo!)
Subito dopo la cascata quando in teoria mancherebbero solo 6 km a Trevi, iniziano i dolori. A parte un paio di km da fare sulla carrozzabile, il resto del sentiero appare incolto e sommerso dai rovi, attraversando campi e con notevoli dislivelli da superare. Il caldo è asfissiante e finalmente arriviamo a Trevi, tipico paesotto sparso sul cocuzzolo dove per andare da A a B Devi sempre e comunque fare almeno 100 m di salita. Sono stanchissimo e appena arrivato all’alloggio per la notte mi appisolo, mentre Oscar riesce a trovare le forze per visitare il centro storico in compagnia di Luisa, la nostra giovane hospitalera che è anche professoressa di latino e greco al liceo classico di Anagni.
Luisa è un Amica del Cammino, parte di quel gruppo di persone entusiaste e pronte a mettersi in gioco per ribaltare le sorti dei tanti borghi che abbiamo visitato lungo il Cammino, affinchè le comunità che ancora popolano questi borghi possano capire che il pellegrino o il viandante possono rappresentare una vocazione turistica di tutto rispetto al di fuori delle folle domenicali o di altre forme di turismo di massa che difficilmente sono attratte dalle poche infrastrutture di questi borghi. Luisa ci contagia con il suo entusiasmo: ci raggiunge per un caffê al ristorante il Girasole e ci parla delle difficoltà da sormontare ma senza lamentarsi. Le auguriamo buona vita, e ci promettiamo di tenerci in contatto per magari riuscire a sostenere qualche altra iniziativa intorno al Cammino.